“What Were You Wearing? Che cosa indossavi?”
Chiede il titolo di una mostra allestita dagli studenti dell’Università del Kansas, nel Midwest degli Stati Uniti.
Sono esposti 18 vestiti, accanto a ciascuno c’è un pannello con una storia (vera) di poche righe raccontata da una donna che ha subito abusi sessuali e che indossava un vestito proprio simile a quello di quand’è successo.
La mostra, voluta dalla direttrice dell’Istituto universitario per la prevenzione e l’educazione sessuale Jen Brockman, è fatta di pantaloni, maglioni, vestiti, magliette di uso comune.
Non sono i «reperti» dei casi di violenze indossati davvero dalle donne che hanno subito violenze, li hanno portati gli studenti. Ed è proprio questo il senso del messaggio per le donne: smettete di sentirvi in colpa e di subire l’offesa di chi vi dice che ve la siete cercata per via di com’eravate vestite, l’abito non conta nulla : lo stupratore abusa di te a prescindere da cosa tu abbia messo su quel giorno maledetto.
Potevi avere la tuta ed essere coperta dalla testa ai piedi perché stavi andando a correre al parco, potevi avere la minigonna perché stavi andando a ballare, potevi avere i jeans e una maglietta perché stavi semplicemente andando a farti i fatti tuoi. Oppure potevi avere un prendisole sbracciato perché eri una bambina di sei anni e quel giorno faceva caldo.
La mostra parla di questo: di uno stereotipo duro a morire secondo il quale la vittima di uno stupro potrebbe avere provocato il suo aguzzino con un atteggiamento equivoco, con una abbigliamento “invitante”: una delle tante versione del “te la sei cercata” che ancora vige soprattutto nelle aule dei tribunali dove, immancabilmente, la linea difensiva dei legali degli stupratori è sempre la stessa: la vittima era consenziente. Quindi è molto importante affrontare un’educazione verso entrambi i sessi, portandoli a capire e a convincere se stessi o altri che il vero crimine da combattere, oltre lo stupro, è anche quello dell’ignoranza!
Chiara Rita Palladino